Dalla rivista culturale "Il porticciolo" - Ottobre 2009
Leopardi: la poesia come voce del cuore e della natura
Le liriche del Leopardi non raccontano né descrivono, ma rappresentano piuttosto l'effusione di un'anima che vince il dolore di una tragedia abbandonandosi al sentimento.
Lo stesso poeta scrisse che "La poesia deve cagionare nell'animo dei lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni", di qui la povertà di particolari, la semplicità delle parole che, nel verso, suggeriscono un costante tumulto interiore.
Quanto più la parola poetica risulta vaga ed indeterminata, tanto più è cara al Leopardi, perché, pur nella chiarezza dell'espressione, diviene voce intima di un Cuore che non parla al lettore, ma lo rende partecipe di un momento della sua vita interiore.
"Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla ... Il poetico si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago", riprendendo alcuni pensieri espressi già a partire dal 1821.
Leopardi mira dunque a fare sensibile nel verso "l'ondeggiamento dell'anima" e a rendere i sentimenti nel loro primo formarsi.
Il poeta che compone la "Sera del dì di festa" e le "Ricordanze" si presenta come la stessa persona che nel silenzio della notte passa di sentimento in sentimento, in quel continuo andare e venire dei ricordi attraverso cui tocca il fondo dell'espressione, in quel sicuro affidarsi alla suggestione di sensazioni passate, in quella misura perfetta della tenerezza affettiva.
La poesia del Recanatese non ci sta davanti come un organismo architettonico, si compone piuttosto poco alla volta, così come nell'animo si fanno avvertire gli affetti non evocati da una volontà intelligente.
Si tratta, per il poeta, di riconquistare attraverso il gioco occasionale delle sensazioni esterne, il tempo e lo spazio perduti della giovinezza appassionata e fantastica, dove le cose rivivono intrise di sentimenti: "Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito." ("Zibaldone", 514-516) Proprio l'irrompere degli affetti e delle pause in cui essi si placano fa più profondo e senza voce il tumulto dell'anima: "Viene il vento recando il suon dell'ora dalla torre del borgo". I limiti e le divisioni della poesia coincidono con la vita del sentimento e la stessa poesia presuppone in tal modo al suo inizio e alla fine una zona di silenzio. Nella prima strofa delle "Ricordanze", un'immagine, un moto d'affetto fanno sì che l'animo chiuso si apra alla voce del passato sempre vivo e ad ogni pausa si direbbe che l'affetto si sia tutto espresso, mentre l'animo si richiude di nuovo nel suo silenzio.
Già nel 1819, Leopardi osservava che è proprio dell'anima umana trovare maggior diletto e appagamento nei pensieri "vaghi e indefiniti", sebbene inafferrabili
e tali da lasciare sempre dietro di sé una scia di desideri e di insoddisfazioni, che non in tutto ciò che è determinato e certo.
Non si comprende la poesia leopardiana se non si considera il valore che assume per il poeta la voce del cuore e della natura, voce intima e solenne, che risuona in tutti i "Canti", nei quali il tono ed i singoli accenti sono il segno di una voce suprema, che imprevedibilmente sorge ed alla quale non può seguire altro se non il silenzio.
Al Leopardi è cara la notte, non tanto per i suoi aspetti pittoreschi, bensì perché il silenzio notturno è il clima ideale della sua poesia, che può liberamente effondersi quando l'azione del giorno si quieta e nulla può distrarre l'animo dall'ascolto di quell'intima voce. La stessa vicenda concreta del poeta, tra vita e poesia, si prospetta non semplicemente come la "storia di un'anima", ma come un'esperienza drammatica dentro la storia e dentro la problematica di ogni uomo, di cui Leopardi, non sempre consapevolmente, sonda ed esplicita le diverse possibilità.
Il carattere intimo della sua poesia non fu un semplice sfogo romantico, ma fu piuttosto il ritrovamento di una voce universale: quella del cuore umano, del suo dolore, della sua delusa e mai rassegnata brama di felicità.
La poesia del Leopardi "canta" i "tristi e cari moti del cor", cogliendo la favola dell'eterna vita e rende sensibile il "tempo dell'anima", che è sempre tempo d'attesa, un protendersi verso il mistero e la bellezza della natura.
Ahi, per la via odo non lunge il solitario canto dell'artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia.
In questi versi della "Sera del dì di festa", il moto di un canto notturno, che si allontana e muore, trova la più spontanea imitazione ritmica nel collocarsi delle parole, nelle inflessioni e nelle pause, con una maggiore corporalità all'inizio e una leggerezza in seguito, che alle sillabe toglie ogni suono, riducendole ad un intimo pensiero di silenzio. L'ispirazione della poesia leopardiana prorompe dall'incanto del mondo naturale, in quella parte che gli offre sostanza di ricordo o di desiderio e che diviene brama di gioventù, di primavera, di memorie.
Gli aspetti naturali delle cose, gli eventi della terra sono sempre appresi dal Leopardi come una rappresentazione della sua vicenda umana, quasi la natura, con i riti d'aria, di luce, di piante, di campi, di monti narrasse in simbolo la vita dolorosa del poeta. In una lettera al Giordani del 21 marzo 1817, Leopardi scriveva; "Quando ho letto qualche classico la mia mente tumultua e si confonde... Io ho insolente desiderio di gloria". Commenta il Momigliano che questa vitalità di stampo alfìeriano, troppo contratta ed implicita nel poeta astigiano, nella lirica leopardiana si scioglie e si espande come un soffio di primavera.
Si potrebbe allora parlare di un certo modo, tutto leopardiano, di entrare nel sogno, di una continua onda di musica che permea e trasvalora i sentimenti senza ucciderli. Credo che il modo migliore per entrare nel mondo poetico di Leopardi sia quello d'individuare la sua tendenza spirituale, di fissare lo strato intimo da cui fiorisce la sua esigenza poetica. Così, troveremo che, al di là di ogni sovrastruttura culturale, vi è nella poesia del grande Recanatese un nucleo che può essere definito di sostanziale romanticismo e ciò rivela ogni suo atteggiamento di spirito, disperatamente bisognoso d'Assoluto.
Il dolore e l'infelicità del Leopardi sono "essenziali", cioè non solo dipendenti da cause esterne o da vicende personali, ma connaturate al carattere stesso della natura umana. Nella lirica leopardiana si sprigiona una forza sinfonica, una musica sicura di colore tutto spirituale, contro ogni conformismo ed opportunismo morale. Molti temi della poesia del Leopardi sono già stati posti dal poeta di Zacinto: il motivo della forza oscura che travolge uomini e cose, il frequente ricorso al pensiero della morte come ad un'oasi di pace, l'aspirazione all'agire temerario per sottrarsi all'insopportabìle "tedio" della vita, la necessità delle illusioni per dare volto umano alle più nobili idealità, ma è la soluzione nuova ad essi data dall'infelice cantore di Recanati che importa. Fratello spirituale dei poeti romantici come Keats, Shelley, Goethe, Heine, che si sono posti l'interrogativo dei rapporti intercorrenti tra l'uomo e l'impenetrabile mistero che lo circonda, Leopardi non si atteggia a ribelle, ma neppure si rassegna alla triste realtà delle cose: fissa coraggiosamente lo sguardo nel destino e, mentre la mente ne disvela tutti gli aspetti più deprimenti, il cuore riafferma i diritti intramontabili della bellezza, dell'amore, della poesia e si placa trasfigurando liricamente la propria esperienza dolorosa in esperienza universale. Come suggeriva Luporini: "Se nella disperazione, troviamo Dio e ne siamo redenti, il pessimismo leopardiano, l'ateismo leopardiano è una delle più alte testimonianze di Dio che siano uscite dallo spirito umano".
La poesia del Leopardi è dunque atto integrale d'umanità, messaggio totale mai rassegnato, anche di fronte al crollo delle illusioni ed al disinganno. Così, anche l'ultimo canto, "II tramonto della luna", composto l'anno stesso della morte, è ancora uno sguardo pieno d'amore rivolto alla giovinezza ed unisce all'estrema rinuncia alla vita, un senso d'inappagata nostalgia, che scorre attraverso l'argenteo paesaggio lunare. Il lento morire, l'appassire della vita dopo la fine della giovinezza sono l'espressione di un'umanità reale. Proprio nel canto dell'addio, in cui il poeta si congeda dal mondo, riscopriamo la tenerezza accorata verso il tempo perduto, un rimpianto struggente che trema sulla soglia del nulla come quella bianca luce lunare:
Ma la vita mortal, poi che la bella giovinezza sparì non si colora d'altra luce giammai, né d'altra aurora. Vedova è
insino al fine; ed alla notte che l'altre etadi oscura, segno poser gli dei la sepoltura.
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