Dalla rivista culturale "Il porticciolo" - Dicembre 2010

Tillich: dall'"angoscia" al "coraggio di esistere"

Uno degli aspetti più interessanti del pensiero di Paul Tillich è il suo tentativo di proporre, sulla scia dei tragici eventi connessi al secondo conflitto bellico, primi fra tutti Auschwitz ed Hiroshima, un messaggio di vita che si fondi sul "coraggio di esistere".

Tillich, studioso di filosofia e di teologia a Berlino, allo scoppio della guerra venne nominato cappellano militare dell'esercito tedesco. Proprio quest'esperienza ebbe su di lui una grande influenza, persuadendolo dell'avvenuto tramonto dei miti ottocenteschi, nonchè del carattere precario del compromesso cristiano-borghese.

Nel dopoguerra, diventò un esponente del movimento del "socialismo religioso", pubblicando numerosi articoli e libri. Libero docente a Berlino, professore straordinario di teologia a Marburgo, docente di scienza delle religioni a Dresda, passò alla cattedra di filosofia a Francoforte.

Quando il nazismo prese il potere, Tillich, primo professore non ebreo a subire questa vessazione, venne dimesso dalla cattedra per il suo atteggiamento anti-hitleriano ed emigrò in America, dove trovò un posto tra i professori dell'"Union Theological Seminary".

Egli fu dunque partecipe di due mondi geografici e sociali, la vecchia Europa e l'America, ma anche di due età e culture, quella ottocentesca e quella del Novecento. Per questo, fu definito un teologo "alla frontiera", al confine tra due epoche, due culture, due discipline, due nazioni; infatti, nello scritto autobiografico "Sulla linea di confine", Tillich pose la sua vicenda di uomo sotto il segno simbolico del "confine", inteso non come elemento di separazione, ma come luogo ideale di confronto e di mediazione. Egli perseguì l'ideale di una teologia cosiddetta "apologetica", capace cioè di partecipare adeguatamente alla situazione del proprio tempo, intendendo non tanto la condizione psicologica e sociologica in cui vivono gli individui, ma soprattutto l'insieme delle forme artistiche, scientifiche, politiche ed etiche con le quali essi esprimono la loro interpretazione dell'esistenza.

Secondo Tillich, l'autocomprensione degli uomini, che si manifesta attraverso la letteratura, il teatro, l'arte, risulta caratterizzata dall'"angoscia" e trova nell'esistenzialismo la sua pił tipica manifestazione filosofica.

Nella nostra epoca, come in quella immediatamente precedente, in cui visse il pensatore, invece di parlare di progresso, si parla spesso di crisi; l'uomo vive il "non-essere che lambisce ogni essere come un oceano minaccioso". Tillich si è sforzato di far proprie e di comprendere le ragioni pessimistiche dell'individuo odierno, non condividendo, ma sottolineando l'importanza delle soluzioni proposte dall'esistenzialismo.

Il motivo del "coraggio di esistere" è vivo in tutta l'opera del pensatore e trova la sua giusta collocazione nell'omonimo libro, dai molteplici risvolti filosofici. Il "coraggio di esistere" si costituisce in antitesi all'"angoscia" del vivere, che per Tillich è prodotta non dalla percezione della caducità universale, ma dall'impressione che tale fatto esercita "sulla sempre latente consapevolezza del nostro destino di morte".

L'uomo è infatti un essere finito e, come tale, vi è in lui una compresenza di essere e non-essere, traducibile in una perenne minaccia del nulla: "l'angoscia è la finitezza sperimentata come la propria finitezza" scrive Tillich.

L'"angoscia" si distingue dalla paura e trova la sua manifestazione ultima nello stato di "disperazione", ma quest'"angoscia" non deve essere ignorata o evitata, bensì consapevolizzata cd affrontata. Secondo Tillich, l'"angoscia" e la "disperazione" non escludono, semmai implicano, dialetticamente e kierkegaardianamente, la speranza, poichè "anche chi ha toccato gli abissi più profondi dell'autodistruzione e della disperazione" può sempre innalzarsi alle cime più alte del coraggio e della salvezza.

Forza consapevole dell'uomo, contro l'illusorio senso di onnipotenza; vittoria umana sul negativo, ben rappresentata dalla nota incisione di Albrecht Durer "Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo", della quale Tillich fornisce un lapidario, ma significativo commento: "Un cavaliere chiuso nell'armatura cavalca attraverso una valle accompagnato dalla Morte e dal Diavolo... è solo, ma non solitario. Nella sua solitudine, partecipa al potere che gli dà il coraggio".

Per il pensatore, senza fede, non possono esserci nè vera speranza, nè autentica salvezza, tuttavia la fede presuppone, secondo Tillich, proprio perchè essa passa attraverso l'esperienza umana del dubbio, l'idea di Dio. Esiste infatti una correlazione tra le domande che l'uomo si pone e la risposta di Dio: tali domande, pur provenendo dall'uomo, non trovano risposte nell'uomo stesso o nella realtà che lo circonda, ma solo in Dio.


La filosofia classica e l'elaborazione del pensiero dei padri medievali si sono poste il grande interrogativo: "Che cosa è l'essere assoluto?", collocandosi appunto in quell'orizzonte che impone all'uomo di porsi sempre questa domanda.

Questa metafisica è divenuta, pertanto, il mezzo per esplicitare l'atto della fede nella grande epoca che da Aristotele e Platone giunge ad Hegel; poi, con l'empirismo e con la teorizzazione di una scienza che s'illude di rendere l'uomo signore e padrone della natura, si è cominciato a pensare alla realtà con le tristi conseguenze tuttora ben visibili.

Per questo motivo, la teologia, secondo Tillich, deve sempre ospitare in sè un momento filosofico, consistente nell' "assumere" la condizione umana e le sue domande naturali.

L'essere di cui l'uomo fa esperienza risulta strutturalmente finito, per cui, l'unica risposta adeguata alla sua precarietà non può che trovarsi in Dio. Il Dio di Tillich è quello che appare all'uomo quando egli sembra ormai sprofondare nelle sabbie mobili dell'incertezza e del dolore più profondi.

Il disorientamento dell'essere umano deriva dal fatto che il progresso scientifico ha condotto ad importanti conquiste, ma esse, proprio perchè esposte sotto forma di evidenze atemporalmente valide, non dicono cosa sia eticamente giusto o sbagliato. Per uscire da tale aporia, si deve ricorrere a quella fenomenologia del linguaggio che ebbe la sua svolta decisiva con Humboldt, fino alla constatazione che per parlare si ha bisogno dell'"altro".

Nel suo temporalizzarsi, l'individuo ha la possibilità di cogliere in ogni evento, che si fa dialogo e "preghiera", la possibilità stessa di dire sì agli accadimenti della storia, senza farsene però inghiottire acriticamente. Al contrario, l'uomo deve essere critico col suo stesso modo di credere in un perfezionamento, che richiede timore ed apertura.

La consapevolezza dei limiti umani è ciò che per Tillich mette in guardia da un abuso della fede e della religione, ma anche da un loro decadimento, poichè il pericolo di qualsiasi "credo", ed il pensatore che aveva sperimentato tutta l'atrocità della follia nazista ne era convinto, è la pietrificazione, dovuta alla sua sola acritica autoaffermazione, che lo trasforma in ideologia.

Perciò, il "coraggio di esistere" consci dei nostri limiti, ma aperti al dialogo con l'"altro", è indispensabile per superare una visione mistica dell'anima che parla col suo Creatore, in nome invece di quel monito agostiniano che ci ricorda come l'Amore di Dio e quello del prossimo convergano; come l'essenza della fede consista nel credere che, nonostante tutto, di fronte al costante dilemma tra gioia e dolore, pur essendo la nostra esperienza collocata sull'ideale distanza tra queste due polarità, la vita ha sempre un significato alto, profondo, sublime ed un barlume di speranza.

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